Il 19 giugno 1996 l’alluvione di Stazzema e i diciotto anni di Matteo: una storia

Avevo solo diciotto anni ed improvvisamente mi trovai a dover affrontare un’esperienza che non dimenticherò più.

I primi 150 della Croce Verde Pietrasanta

Il 19 giugno 1996 uscito da scuola e dopo aver pranzato, mi trovavo con altri pochi amici nella sede della Croce Verde di Pietrasanta. Erano quasi le tre del pomeriggio e un gruppo dei miei compagni era già partito, con mezzi di soccorso, verso l’alta Versilia. Erano stati avvisati che in quella zona, a causa di un violento nubifragio, stava accadendo qualcosa di veramente grave e di mai visto. I locali dei volontari della Croce Verde erano quasi deserti. C’erano Pelagatti, che freneticamente stava dirigendo gli spostamenti tramite ponte radio, la Serena, la Chiara ed io.

Il telefono diventava sempre più inquietante per il continuo squillare. Pelagatti, alzandosi di scatto dalla sedia, ci disse: “Forza, veloci! indossiamo i giacconi e corriamo”. Non disse neppure dove dovevamo andare. L’unico mezzo rimasto era il nostro vecchio “Polifemo”, un 238 Fiat. Quando tutti e quattro salimmo sul mezzo ci disse che dovevamo recarci in via San Bartolomeo per portare soccorso ad una signora disabile, bloccata nella propria casa, poiché il fiume Versilia aveva rotto gli argini. Tentammo d’imboccare la via, ma l’acqua era ormai troppo alta. Il “Pela” non si dette per vinto e provò a passare per via Torraccia. Riuscimmo a arrivare fino a metà strada, senza poter procedere oltre a causa dell’acqua alta.

Il tempo era spaventoso. Nuvole nere impazzite ruotavano vorticosamente sulle nostre teste. Fulmini e tuoni si alternavano senza un attimo di tregua, mentre una pioggia scrosciante ci lavava come se fossimo sotto una cascata alpina. L’acqua mista a fango cresceva e  diventava sempre più minacciosa.

Ci fermammo per cercare con lo sguardo un percorso alternativo, ma subito ci accorgemmo di trovarci in un lago melmoso e nella assoluta impossibilitati di andare in una qualsiasi direzione.

Col fiato sospeso ci accorgemmo che eravamo fermi sopra un piccolo dosso, una specie di isolotto. E adesso, cosa fare? Pelagatti si trovava a gestire una situazione di grave pericolo e con tre giovani che da soccorritori erano diventati di colpo da soccorrere. Per nostra fortuna riuscimmo a sapere, tramite radio, che un nostro mezzo 4×4 non era lontano da noi. Il “Pela” decise di raggiungerlo come poteva, considerando che la fanghiglia sembrava stabilizzarsi nella sua corsa. Mentre si allontanava ci ordinò di non muoverci dal veicolo. Avemmo pochi istanti di tregua perché di lì a poco si scatenò nuovamente l’inferno: l’acqua e il fango ripresero a salire velocemente tanto da invadere l’abitacolo del mezzo dove ci trovavamo.

Sbalorditi incominciammo a vedere macchine trasportate come modellini vaganti. Muretti di recinzione che cadevano; lampioni che si piegavano docilmente sotto la furia impetuosa del vento e dell’acqua. Intorno a noi un’immensa distesa fangosa che confondeva i confini naturali disorientandoci definitivamente. 

Rimanere fermi, mentre intorno a noi cambiava il paesaggio, stava diventando un’esperienza sempre meno sopportabile. Dove potevamo andare? Le ragazze sotto shock incominciarono a piangere ed io non sapevo che decisione prendere. Finalmente Pelagatti tornò insieme ad Emanuele. Decidemmo di scendere dalla macchina e di rifugiarci, un centinaio di metri più avanti, in una segheria, sopra dei blocchi di marmo. Dopo aver ripreso un po’ di energie era giunto il momento di fare gioco di squadra. Ritornammo a scendere nell’acqua gelida e fangosa. Si faticava a rimanere in piedi. Ci prendemmo per mano formando una catena.

La corrente era forte e non sapevamo dove mettere i piedi. Tronchi d’albero e oggetti indefiniti ci sfioravano il corpo e le gambe. Sapevamo che se ci avessero colpito in pieno, probabilmente saremmo stati trascinati nell’acqua e chissà come sarebbe andata a finire per tutti noi.

Passarono interminabili minuti prima di arrivare in un posto sicuro. Ricordo ancora che un gruppo di operai ci aiutò a fare l’ultimo tratto del percorso. Stanchi ed infreddoliti arrivammo in sede, sopra ad un mezzo anfibio dei pompieri. Qui, con la mente completamente vuota, ci mettemmo a sedere e prima di parlare passarono ore. Eravamo terrorizzati da quella brutta avventura, quasi-eroi senza che nessuno ce lo disse. Avevamo fatto il nostro dovere, ma molto, molto dopo capimmo che avremmo potuto essere fra le vittime dell’alluvione che colpì la Versilia il 19 giugno 1996.

di Matteo Castagnini su “La nostra Città” della Croce Verde Pietrasanta

La distruzione e poi subito la ricostruzione, di Riccardo Ratti, presidente Croce Verde Pietrasanta

Aveva iniziato a piovere già nella notte, una pioggia intensa come non si vedeva da molti anni, che proseguì per tutta la mattina. Nell’alta Versilia alcune strade avevano ceduto isolando le frazioni, tanto da richiedere l’intervento di un elicottero dei Vigili del Fuoco. Niente lasciava presagire che il peggio sarebbe avvenuto nel primo pomeriggio. La pioggia, concentrata sulle vallate dello stazzemese, cominciò a trascinare fango, detriti e alberi. Poco dopo le 13 il fiume si portò via il paese di Cardoso, quindi travolse Ponte Stazzemese, il centro di Seravezza e continuando la sua corsa verso il mare, in località La Rotta, nome che non ha bisogno di spiegazioni, riprese il suo vecchio percorso, prima che venisse deviato verso il Cinquale dove oggi si trova la foce del Versilia. Dalla Rotta la massa d’acqua, fango e alberi invase la pianura fino alle porte di Pietrasanta: via S. Bartolomeo, il sottopasso, via I Maggio, viale Apua, interrompendo la statale Aurelia e la ferrovia e dividendo in due la costa. L’alluvione del 19 giugno 1996 ha prodotto dolore e distruzione ma ha anche compattato un popolo attorno alla ricostruzione. Con il “modello Versilia” (quel sistema concreto ed efficace di aiuti e di interventi, con una delega ai sindaci e ad un commissario) si è sperimentato un primo vero esempio di federalismo solidale.

 

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