Pubblichiamo il report scritto da Rita Ciccaglione, antropologa, a Mirandola

 


Arrivo a Mirandola il 6 giugno e ci rimango per tre settimane di fila. Quando giungo alla stazione ho un indirizzo tra le mani a cui devo arrivare, ma non so come fare. È il deserto, se non per una coppia lì davanti. Chiedo a loro e lei mi dice che mi ci porta in auto al Campo Palazzetto, zona Piscine. Salita in macchina, partiamo e la donna mi chiede da dove vengo, se sono una volontaria. Le spiego che sono un’antropologa, che cerco di capire e studiare l’impatto sociale di un terremoto e le risposte culturali che esso può innescare. Le dico che sono Irpina, che sono stata a L’Aquila. Mi chiede se a L’Aquila si sono ripresi, lei sa di no e sono passati tre anni. Mi chiede quanto c’è voluto in Irpinia quando le dico che anche lì nell’80 c’è stato un terremoto distruttivo. E io metto da parte la mia rabbia per l’Irpinia e il mio spirito critico per L’Aquila e le dico che “le cose non sono proprio andate benissimo, ma che dipende sempre dal contesto”. La donna che ha 34 – due più di me – e una bambina di otto mesi, mi dice che abitava in centro storico, che anche i suoi genitori, che le loro case sono andate perse, tutti i risparmi di una vita, che sono tre settimane che stanno dormendo fuori nel cortile di un’altra casa che aveva il suo compagno, che hanno paura di entrare, paura che non si rialzeranno più, che questa cosa nella vita non passerà mai.
Rita Ciccaglione, antropologa, al campo CostaQuesto è l’inizio della mia esperienza di campo a Mirandola che l’Anpas nazionale, ricevendo la mia richiesta di un appoggio logistico, mi ha permesso di compiere. Ed è da qui, da antropologa, che provo a restituire qualche piccolo elemento di analisi. Sebbene la mia osservazione non si sia concentrata esattamente su questo, cioè sulla perdita dello spazio di vita intimo e privato della casa, riflettere su tale questione mi ha aiutato a comprendere un terremoto che da subito ho definito invisibile. Invisibile perché, arrivata a Mirandola, la delimitazione della zona rossa non mi permette di constatare visivamente i danni. Questa è stata creata intorno all’anello di circonvallazione esistente e in essa non si capisce cosa sia agibile e cosa no. L’impressione è che tale delimitazione sia stata creata seguendo il perimetro urbanistico preesistente e non nella reale esigenza di una sicurezza rispetto a crolli o altre problematiche legate all’agibilità degli edifici. La prima volta che circumnavigo la zona praticamente non riesco a vedere nulla, quasi non capisco se ci siano effettivamente dei danni.

Non che sia alla ricerca di macerie, ma per esperienza sono abituata ad altro, a edifici collassati e a tamponature scoppiate che ti fanno entrare con l’occhio in casa della gente senza essere invitata. Poi una mattina sento la cartolaia da cui vado regolarmente a comprare il giornale dire al telefono che la scuola elementare è crollata. La scuola elementare è a poche centinaia di metri e il crollo riguarda parte del tetto. Inizio a pensare che ci sia una drammatizzazione in atto degli effetti, dovuta all’altissima vulnerabilità psico-sociale della popolazione di fronte all’evento. La totale mancanza di percezione del rischio sismico che caratterizzava la situazione presisma ha esponenzialmente amplificato l’impatto dell’evento a livello emotivo e simbolico.

Così mi decido a chiedere una visita in zona rossa. Ho la fortuna di avere a che fare con un ufficio stampa comunale molto disponibile. Ho la possibilità di parlare un secondo con il sindaco e di spiegargli le mie impressioni e l’esigenza di verificare le trasformazioni che il terremoto ha provocato sullo spazio abitativo. Ho il permesso di entrare in quanto antropologa. La visita alla zona rossa la faccio con una coppia mirandolese che mi fa da guida per orientarmi negli spazi della città e un vigile del fuoco di Milano che ci scorta. Le chiese sono davvero collassate e i monumenti effettivamente danneggiati a vista. Il vigile mi spiega che molte case erano malandate e ci sono crolli interni. Molti edifici hanno danni strutturali e vanno demoliti. È ancora il terremoto invisibile un terremoto che non sembra, ma c’è.

Chiacchierare con le persone nei bar, nei campi spontanei o nella tendopoli dell’Anpas a Piazzale Costa, dove mi è stato data la possibilità di entrare come osservatrice esterna, mi conferma le idee acquisite. Riporto una frase segnata sul mio taccuino e pronunciata da una donna di mezza età: “Anche se le case non sono effettivamente crollate il centro è stato chiuso tutto, quindi la gente comunque non ha la possibilità di accedere alla propria casa. Una ragazza che non vive a Mirandola, ma la lavora qui da molti anni mi concede un’intervista e mi dice al riguardo: “Per loro anche avere un tetto danneggiato è un crollo. Tante persone sono terrorizzate. Una crepa che non è un danno strutturale per loro significa mancanza di sicurezza. Io dubito che si rendano conto della differenza. Non erano abituati a pensarsi come zona sismica. Qui i terremoti si sono sentiti sempre come le ondate degli altri, ma cose minime. Qui non erano preparati sotto nessun punto di vista. Mai nessuno qua ha detto che era zona sismica o che ci fosse la possibilità. Questa è la cosa che li ha destabilizzati di più. Avrebbero potuto pensare a qualsiasi altra cosa, perfino che venisse fuori il Po, ma non a un terremoto. Qui anche gli anziani dicevano che se pure fosse venuto un terremoto non succedeva niente perché è un terreno misto, con la sabbia, paludoso, l’acqua che attutisce. Saranno leggende. Ora c’è gente che dice che la faranno diventare zona sismica perché c’è stato il terremoto”.

Pian piano si aprono però altri spiragli di lettura. Un ingegnere in merito alla questione mi dice: “I VVFF mi hanno detto che a L’Aquila hanno visto le case in briciole e qui no. È vero che qui non c’è il collasso. Le case sono lesionate, non collassate. Non c’è crollata addosso la struttura, hanno tenuto, ma da lì ad essere abitabili. Ritornare in una casa che sia crollata completamente e non puoi o ritornare in una casa che abbia delle lesioni gravi non c’è poi tanta differenza. Dire è crollata è un’esagerazione però non è abitabile e quindi poco cambia nella condizione delle persone. La casa non è disponibile”.

Più tempo permango a Mirandola, più parlo con le persone e più comprendo che perdere casa non significa esclusivamente perdere quattro mura che ti ospitano. Abitare non significa solo questo, ma intrattenere relazioni valide con il proprio ambiente. Perdere fiducia nello spazio che scegli di abitare, in cui ti senti sicuro è un’esperienza dilaniante. Molti mirandolesi pur non avendo gravi danni alle abitazioni preferiscono dormire in tenda fuori casa. Nasce così il fenomeno dei campi spontanei, pratica dettata dalla paura più che da una reale esigenza. Una donna che ha scelto questa soluzione e con cui mi fermo a parlare mi dice: “Non rientro perché ho paura. Ci sono delle crepe, ma sono venuti a controllare e ci hanno detto che le case sono agibili. Nel condominio siamo  otto appartamenti ed è vuoto. Fuori le scosse si sentono di meno, i casa molto di più. Dopo aver dormito in macchina dopo la prima scossa. Eravamo rientrati, ma la seconda è stata peggio. Già la prima aveva buttato giù mobili e oggetti. La paura è quella di rimanere schiacciati da qualcosa e dalla casa stessa. In casa si sente di più. Poi si sente dire che arriveranno altre scosse e questo non tranquillizza. Ma se non riusciamo a sentirci tranquilli noi, sicuri non è che si rientra in casa”.

Un’altra da poco rientrata in casa mi esprime le sue paure in merito: “Mio marito che era dentro il 29 si è visto ballare l’armadio e gli ha dato turbamento. Vedendola questa cosa ti preoccupi, poi storie di persone che hanno avuto armadi e librerie caduti. Io sono tornata in casa, ma non dormo nella stanza dove ho l’armadio, dormo in una stanza senza niente. C’è solo il letto. Per precauzione”.

Ristabilire il contatto con il luogo che ti ha tradito significa elaborare risposte emotive e cognitive, rielaborare le mappe mentali che erano diventate abituali nella fruizione di tale luogo. Una donna mi racconta la sua esperienza.” Quando entri a casa tua la prima volta è tremendo perché vedi tutto spostato, tutto per terra. Rimetti a posto e butti i cocci e ti guardi attorno e vedi che ci manca qualcosa, qualche pezzo. Ma la seconda ha rotto ancora di più e pensi a chi te lo fa fare di rimettere a posto. Io ho iniziato da poco, un po’ alla volta. Guardi la sedia dove leggevi, il letto dove dormivi e pensi se riuscirai a trovare la tranquillità e la serenità che trovavo prima. Era il mio mondo, adesso la sedia l’ho messa vicino alla porta e non riesco a leggere su. Le orecchie sono tese a ogni rumore. È molto difficile riprendere a vivere l’ambiente come facevi prima. Prima la casa era un rifugio, era tua, era sicura, contro le intemperie, ora non è nemmeno quelle. Si ripensa ai rumori. Lei te li fa vivere. Non la vivi più come un rifugio, quasi come una prigione”.

La casa che fino all’arrivo del terremoto era un luogo di protezione diventa per effetto dell’evento catastrofico una potenziale trappola. Di fronte a questo improvviso e necessario cambiamento degli schemi di lettura del proprio ambiente l’uomo attiva tutte le risposte che è in grado di produrre per non cedere al ruolo di vittima. Si sviluppa nei primi momenti un rapporto contraddittorio con la casa come spazio intimo della propria vita. Da un lato essa ha negato la protezione da sempre offerta, ma cedere alla tentazione dell’abbandono significherebbe ledere la propria capacità di agency, la propria capacità di scelta e di azione. Mi dice una giovane donna: ” Poi bisognerà conviverci perché io ad andar via proprio non ci penso… Perché non l’ho scelto, non sono io che sono voluta andare via. Può distruggere quello che gli pare, ma io qua ho un progetto. Io ho scelto di abitare in quella casa con mio marito. È un progetto che ho creato in questi anni”.

Chi rimane fuori casa con una tenda ha paura, ma anche la necessità di proteggere se stesso e il suo progetto di vita proteggendo la propria casa. Si sviluppa una forma di presidio che è innanzitutto presidio alla vita che nella casa si svolgeva sino al momento del sisma. Afferma una donna con cui mi fermo a chiacchierare una mattina nel caldo mirandolese: ” Chi aveva la casa si  è arrangiato con le tende fuori casa. Ha voluto rimanere fuori casa, esserci, essere lì, con la casa. Se no è l’abbandono totale, voglio controllarla non abbandonarla definitivamente, se no è come dire ho perso tutto. Averla lì mi bastava, non era crollata, anche se tutte le cose sono dentro e non è più la stessa”. Questa forma di presidio mi viene ulteriormente chiarita da un signore che si lascia intervistare davanti ad un caffè: “Vado spesso a casa mia. Entro nella zona rossa senza i VV FF. Vado a vedere se qualcuno  mi entra in casa di notte. Ci vado tutti i giorni. A me non fa soffrire il fatto che sia chiusa, è anche una questione di sicurezza e di rischio. Quello che mi fa  star male è il silenzio, il fatto di non vedere nessuno, vedere queste vie abbandonate, queste vie morte. Quello che mi fa star male è entrare in casa mia e vedere questa casa abbandonata. Tu vai a lavorare al mattino e torni la sera, la casa è rimasta chiusa, ma è una casa che ti accetta, che è viva, che ti sta aspettando. Tu stai viva sette giorni al mare e comunque è una casa che ti accoglie. Adesso questa casa ti rifiuta, è una casa morta, abbandonata, una casa violata. È tutto a terra. È casa mia, però prima di ritornare ad avere un rapporto con la mia casa ci vorrà del tempo perché questa casa… Non c’è più l’odore di casa tua, c’è un altro odore. C’è l’odore della polvere che è entrata, delle altre case che sono cadute, della frutta che è marcita, odori che non avrei mai sentito nella mia vita, quando ero uguale a te”.

Di fronte a questa vulnerabilità consapevolmente esperita si sviluppa un innalzamento della percezione del rischio che si traduce in comportamenti concreti. Essi possono riguardare la fruizione interna dello spazio casalingo come sottolinea una donna dicendomi: “Anche sull’attenzione di come ti muoverai nella casa, di come disporre i mobili o apporre pensili e mensole alle pareti, sul letto. So già che volevo fare alcune cose che adesso non farò… Penserà a un arredamento sicuro, a capire quali sono i punti sicuri in casa mia… Imparare da questo è importante…”. Più generalmente un’acquisita percezione del rischio si traduce in una maggiore attenzione dei modelli costruttivi da applicare sul territorio: “Poi ho maturato subito la convinzione che qui bisogna cambiare tutto: la casa è agibile, ma non è antisismisica. O io mi do una casa antisismica o non potrò mai vivere tranquilla qua. Questa zona è sismica, altamente sismica, perché questo terremoto non è stato mediocre, quindi dobbiamo costruire al meglio. Si guardava all’aspetto estetico e non alla sostanza della costruzione prima. Una parvenza di cose confortevoli, ma labili. Io sto pensando alla costruzione di una nuova casa, perché non potrò vivere bene nella vecchia. Noi possiamo continuare a vivere qui, ma dobbiamo darci delle strutture sicure, a partire dagli edifici pubblici. Dobbiamo cambiare tutto, altrimenti vivremo con l’ansia”.

Tornare alla normalità, cioè tornare a fruire lo spazio dell’abitazione come proprio, come luogo di protezione e sicurezza, in cui è possibile spendere le proprie abitudini è comunque un processo graduale. Come mi fa notare una donna esprimendo il suo desiderio di vita normale: ” Tornare a perderti… Prima la mattina sceglievi i vestiti nell’armadio, adesso prendi le due cose che capitano e te le metti. Non stai a perdere tempo davanti all’armadio perché pensi che potrebbe accadere proprio in quel momento. Poi man mano che le scosse calano potremo pensare che è passata, ma certe cose rimarranno”.

 

E a me viene in mente un pezzo di Ernesto de Martino che leggevo quando iniziavo a lavorare sul terremoto aquilano: “Quando gli uomini non sono al loro giusto posto. Ma non soltanto gli uomini non sono al loro giusto posto, ma anche gli alberi, le case -in generale tutte le cose. Ha avuto luogo un cambiamento. (…)Gli uomini non hanno più le loro cose con sè e le cercano. (…) Essi vogliono riavere le loro cose e la loro patria. Il bel mondo non si può ricomporlo in modo giusto. Il mondo di prima non c’è più, il bel mondo. (Ora com’è?) Mutato. (Che cos’è mutato?) Le case, le strade. Il globo terrestre è rimpicciolito, i monti non ci sono più. Essi più non sanno dove passano i confini. Il mondo è più piatto. Gli uomini non sono più a loro agio, sono spaesati. Anche io non sono più al posto giusto. (Qual è il posto giusto?) Dove si è a casa. (…) (Quando andranno meglio le cose nel mondo?) Quando essi riavranno le case, quando saranno di nuovo a casa loro (avranno il loro ambiente domestico nel luogo giusto). Quando tutto tornerà in ordine”[1].



[1] E. de Martino (a cura di C. Gallini), La fine del mondo, 1977 (2002), Einaudi

 

Rita Ciccaglione, laureata in Discipline Etno-Antropologiche. Si occupa principalmente di antropologia dei disastri, del territorio e del patrimonio. Da circa tre anni si interessa alla gestione, fruizione e rappresentazione delle dimemsioni spazio-temporali oltre che delle relazioni sociali in situazioni legate a catastrofi naturali con attività di osservazione sul campo e analisi negli ultimi episodi sismici in Italia. A L’Aquila la ricerca si è focalizzata sull’analisi degli spazi delle tendopoli come luoghi istituzionali e istituzionalizzanti e su quella del mercato storico cittadino con una particolare attenzione alle dinamiche di narrazione e rappresentazione di esso in quanto luogo pubblico. Ad Avellino, città natale, l’analisi si è invece concentrata sulla memoria istituzionale del terremoto del 1980 cercando di comprendere le strategie e le tattiche attraverso cui essa si è prodotta tanto a livello nazionale quanto su quello locale. Inoltre, nello studio della memoria pubblica particolare rilievo hanno avuto i cosiddetti luoghi di memoria. Attualmente si propone di osservare in Emilia il tipo di connessione che possa emergere tra la gestione dell’emergenza che delimita istituzionalmente lo spazio, il tempo e le relazioni tra le persone e i meccanismi di costruzione che interessano il passato come memoria e il futuro come resilienza, entrambi collettivamente intesi. Gli elementi che si intendono osservare sono, da un lato l’abitare nelle tendopoli e nelle zone colpite dal disastro, dall’altro le modalità di rappresentazione che la popolazione sviluppa nei confronti del sisma, come frattura dello spazio e del tempo, delineando quei luoghi che sono veicolo di memoria e identità collettiva, monumenti e centri storici.


Anpas intervention for the earthquake in Emilia Romagna

 


Come aiutare le pubbliche assistenze Anpas colpite dal sisma


I racconti dei volontari
Il 20 maggio di Valentina

Noi, sciacalli di emozioni, di Rosanna Morelli

Campo Costa Timbuktu, di Alessandro Nassisi

Campo Costa: un laboratorio multiculturale, di Rosanna Morelli


 

Anpas all’Hackathon terremoto (Bologna, 16-17 giugno)


La struttura protetta del campo di Mirandola (foto)


I Gas dei volontari Anpas: un sostegno alle aziende


La cucina del Campo Costa (video)

  
                           


Di terremoti, false leggende e info utili (approfondimento)

  
 


Anpas a lavoro a poche ore dal sisma

 

 

COSA FARE IN CASO DI TERREMOTO

Durante il terremoto
• Se sei in luogo chiuso cerca riparo nel vano di una porta inserita in un muro portante (quelli più spessi) o sotto una trave.  Ti può proteggere da eventuali crolli
• Riparati sotto un tavolo.  E’ pericoloso stare vicino ai mobili, oggetti pesanti e vetri che potrebbero caderti addosso
• Non precipitarti verso le scale e non usare l’ascensore.  Talvolta le scale sono la parte più debole dell’edificio e l’ascensore può bloccarsi e impedirti di uscire
• Se sei in auto, non sostare in prossimità di ponti, di terreni franosi o di spiagge.  Potrebbero lesionarsi o crollare o essere investiti da onde di tsunami
• Se sei all’aperto, allontanati da costruzioni e linee elettriche.  Potrebbero crollare

• Stai lontano da impianti industriali e linee elettriche.  E’ possibile che si verifichino incidenti
• Stai lontano dai bordi dei laghi e dalle spiagge marine.  Si possono verificare onde di tsunami
• Evita di andare in giro a curiosare e raggiungi le aree di attesa individuate dal piano di emergenza comunale.  Bisogna evitare di avvicinarsi ai pericoli
• Evita di usare il telefono e l’automobile.  E’ necessario lasciare le linee telefoniche e le strade libere per non intralciare i soccorsi Dopo il terremoto

• Assicurati dello stato di salute delle persone attorno a te. Così aiuti chi si trova in difficoltà ed agevoli l’opera di soccorso
• Non cercare di muovere persone ferite gravemente.  Potresti aggravare le loro condizioni
• Esci con prudenza indossando le scarpe.  In strada potresti ferirti con vetri rotti e calcinacci
• Raggiungi uno spazio aperto, lontano da edifici e da strutture pericolanti.  Potrebbero caderti addosso

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Prima del terremoto
• Informati sulla classificazione sismica del comune in cui risiedi.  Devi sapere quali norme adottare per le costruzioni, a chi fare riferimento e quali misure sono previste in caso di emergenza
• Informati su dove si trovano e su come si chiudono i rubinetti di gas, acqua e gli interruttori della luce.  Tali impianti potrebbero subire danni durante il terremoto

• Evita di tenere gli oggetti pesanti su mensole e scaffali particolarmente alti. Fissa al muro gli arredi più pesanti perché potrebbero caderti addosso

• Tieni in casa una cassetta di pronto soccorso, una torcia elettrica, una radio a pile, un estintore ed assicurati che ogni componente della famiglia sappia dove sono riposti

• A scuola o sul luogo di lavoro informati se è stato predisposto un piano di emergenza.  Perché seguendo le istruzioni puoi collaborare alla gestione dell’emergenza


Terremoto: io non rischio

Clicca per ulteriori descrizioni dell’iniziatva promossa da Protezione Civile e Anpas, in collaborazione con INGV e ReLUIS (Consorzio della Rete dei Laboratori Universitari di Ingegneria Sismica).

Scarica il materiale di “Terremoto-Io non rischio”, prodotto nell’ambito del progetto Edurisk con la collaborazione di Giunti Progetti Educativi:


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