La società dei rischi e delle emergenze – la lectio magistralis del Capo Dipartimento Gabrielli

La società dei rischi e delle emergenze – la lectio magistralis del Capo Dipartimento Gabrielli all'inaugurazione dell'Anno Accademico dell'Università di Calabria

Franco Gabrielli al Congresso 52, 28 novembre


Più che la classe politica e i politici, oggetto ormai da tempo di un dissenso e di una perdita di fiducia che hanno preso il nome di “antipolitica”, a essere oggi in crisi è la  nostra cultura politica, il modo abituale di pensare il bene comune della nostra società. Ed è, questa, una crisi assolutamente bipartisan, grave perché è insieme crisi di contenuti e prospettive ma anche di metodi e strumenti indispensabili a progettare il futuro.
Il nostro Paese è riuscito, praticamente negli stessi anni, nel trentennio tra il 70 e la fine degli anni 90 del secolo scorso, sia a distruggere le sue grandi imprese di eccellenza in settori strategici – dall’energia alla avionica, dalla chimica all’informatica e così elencando, come ha fatto Luciano Gallino in un aureo libretto, pubblicato da Einaudi nel 2003 – sia a sacrificare enormi risorse economiche e umane, oltre che territori e vocazioni antiche, al mito della industrializzazione da realizzare ovunque, come passo indispensabile verso la modernità. 


Cito tre esempi: il primo, l’enorme impatto che le conseguenze dell’industrializzazione hanno avuto e hanno sul territorio del nostro Paese e sulla salute dei suoi abitanti, come una sorta di rischio antropico differito. Penso all’eternit, ai rifiuti industriali, all’inquinamento di tanti territori usati a discarica. Il secondo, gli effetti negativi che la priorità assoluta data all’industria prima e alla finanza poi hanno provocato: penso, ad esempio, alle conseguenze sul rischio idrogeologico provocate dall’abbandono delle attività agricole. Il terzo, che considero il più grave di tutti, è l’incapacità del nostro Paese di cambiare modello di crescita per affrontare in termini meno appesantiti la fase post-industriale dell’economia, con una totale mancanza di studio, di pensiero, di analisi e di progettualità sulle caratteristiche che l’Italia deve arrivare ad avere per reggere nel tempo dei mercati globali.
All’origine di ciò c’è una ragione semplice ma evidentemente difficilissima da superare: la ripartizione di compiti tra pubblico e privato, tra economia e assistenza, tra competenze pubbliche a tutti i livelli, tra risultati economici ed effetti indesiderati sul territorio e sul benessere della popolazione, che oggi non tiene più.

 

Le difficoltà sono evidenti e condivise largamente tra schieramenti politici e livelli di governo. Il senso di impotenza che viene dalla mancanza di risorse adeguate ad affrontare qualsiasi problema serio e “vero” è diffuso a ogni livello. Ma almeno fino a oggi non sono stati elaborati modelli e approcci diversi da quelli dell’epoca industriale: nessuno in Italia è oggi in grado di governare processi e dinamiche che sono diventati sempre più intrecciati. Il massimo che riusciamo a fare è l’appello alla buona volontà, all’impegno, alla responsabilità.


In materia di problemi ambientali e di rischi il nostro livello di conoscenza è cresciuto e migliorato sensibilmente: oggi conosciamo molto meglio di trenta, quaranta anni fa il nostro territorio, i rischi naturali e antropici presenti, i fenomeni di crisi a essi collegati, le dinamiche dei processi, le conseguenze dei fenomeni e delle nostre reazioni. Ma è diventata insopportabile la nostra incapacità di trasformare la conoscenza in consapevolezza, in criteri di scelta evidenti nella loro necessità e urgenza per l’uso delle risorse disponibili per quanto scarse.


Pur con i limiti di una conoscenza scientifica avvertita e consapevole, che sconta ormai da sola, senza bisogno dell’aiuto di giudici e magistrati, la pericolosità di un sapere probabilistico, il quadro di conoscenze di cui disponiamo rende impossibile, in pratica, qualsiasi effetto sorpresa se accade un qualche disastro.

Sappiamo come è messo il territorio, conosciamo i limiti oltre i quali gli equilibri si rompono inesorabilmente e quali sono gli effetti e le conseguenze di queste rotture di equilibrio. Conseguenze note anche ai cittadini, che classificano senza giri di parole le vittime delle catastrofi come “morti annunciate”, rese possibili dalla paralisi, dalla cecità, dalla lontananza di chi doveva impedirle.


Al di là dei casi evidenti di responsabilità personale per i tanti mancati interventi, specie nel campo della prevenzione, la realtà è che siamo nella condizione di non poter intervenire in modo efficace per modificare i profili di rischio del territorio. Pur sapendo benissimo, prima ancora che i giornalisti televisivi ce lo svelino in qualche programma ben costruito per raggiungere buoni livelli di emozione e quindi di audience, che costa meno intervenire prima di una catastrofe che dopo, non siamo in condizione di programmare interventi fattibili capienti abbastanza da poter incidere in modo significativo sui rischi: mancano sempre le risorse, e spesso anche le condizioni di fattibilità, gli accordi sulle priorità, il coordinamento efficace degli interventi e il controllo sulla loro qualità.


Così la sproporzione tra il poco che facciamo e che abbiamo fatto e il necessario cresce di anno in anno. I soli rischi idrogeologico e sismico ai livelli che raggiungono in Calabria richiederebbero interventi per decenni, per importi commisurabili a frazioni importanti del PIL italiano più che del bilancio dello Stato. Il discorso vale, a maggior ragione, per l’insieme delle regioni italiane e per l’intera gamma dei rischi con i quali conviviamo. In più, il modello di crescita che abbiamo seguito ci presenta il conto, nella forma di altri rischi relativamente nuovi o più semplicemente meno percepiti in passato, come l’inquinamento da residui delle lavorazioni industriali che, grazie alla attività imprenditoriale di alto livello espresse dalla criminalità organizzata, si sono estese ben al di là dei confini delle aree di insediamento delle industrie che li hanno prodotti.


Chi governa cerca di proteggere con una assidua presenza sugli strumenti di comunicazione iper tecnologici la reale complessità dell’azione nella quale è impegnato, per non cadere nella trappola costruita da una opinione pubblica che pretende soluzioni immediate a qualsiasi problema. Chi ha compiti e funzioni più operative cerca di vincere ogni giorno la tentazione alla rassegnazione, ostinandosi a usare il suo cucchiaio senza guardare quanto è largo il mare che ha davanti; pur sapendo che la fotografia di oggi non sarà molto diversa, se tutto andrà bene, da quella che potremo scattare tra venti o quarant’anni. Di solito, a questa constatazione amara, segue il silenzio.


Credo che questo sia un silenzio da rompere, perché ci sono due condizioni minime che devono sostenere gli sforzi di chi non si arrende. La prima riguarda la necessità che i cittadini – intesi come volete, anche nella accezione a me non simpatica di “opinione pubblica” – siano consapevoli di come stanno le cose. La seconda, che vi sia la possibilità di formulare domande, di dare corpo a ipotesi nuove, di provare a rompere gli schemi abituali per riconoscerne i limiti e provare a superarli, rendendo di nuovo possibile aprire vie di azione coerenti con i livelli di conoscenza acquisiti.
Senza di ciò, la ricerca scientifica diventa attività masochistica, diventa un saper guardare sempre meglio ciò che accade senza poter avvertire chi sta correndo incontro a rischi ineludibili, senza poter frenare la corsa di chi va verso il pericolo,  senza poter far nulla per ridurlo. E lo stesso discorso vale per chi si occupa di protezione civile.

 

Credo sia arrivato il momento in cui la sola via per ragionare di rischi debba essere quella di riorganizzare le reazioni alle situazioni di rischio senza isolarle dalle dinamiche economiche e dai loro soggetti, superando lo schematismo ormai paralizzante dei soldi pubblici come unica imprescindibile risorsa per gli interventi sull’ambiente. 

Come fare a comunicare il rischio alla popolazione delle città, della costa, dell’interno di questa regione? Che canali, che forme di comunicazione usare? Come costruire condizioni di informazione minima verificata e acquisita dagli abitanti delle diverse parti del territorio? Sono domande che oggi non hanno risposte puntuali, verificate, studiate per essere efficaci con tutti i cittadini, tenendo conto delle diverse sensibilità, capacità culturali, livelli di attenzione che differenziano in tante categorie l’utenza dei destinatari dei nostri messaggi di protezione civile. Anche  su questo piano ci serve arrivare a una nuova fase, nella quale la comunicazione del rischio, la diffusione delle informazioni e la capacità di incidere sui comportamenti sia parte integrante delle elaborazioni che siamo capaci di fare. È indispensabile spiegare a tutti, giovani e anziani, abitanti delle città e dei piccoli paesi, che non serve aspettare un futuro migliore per metter mano alla difesa del suolo e alla mitigazione dei rischi, perché quel futuro non solo non arriva ma non è neppure partito e non sembra avere intenzione di farlo.

Ho parlato di approcci nuovi, multidisciplinari, che aiutino a portare la Protezione Civile oltre il limite delle risposte puramente tecniche e che, allo stesso tempo, siano in grado di costruire su nuove basi la collaborazione tra chi governa il territorio e chi si occupa di protezione civile. 
L’invito che rivolgo a tutta l’Università della Calabria è di dedicare un po’ di attenzione e di impegno di tutti per trovare o, del caso, inventare nuove strade di
collaborazione, di dialogo e sinergia tra le diverse discipline, tra i vari dipartimenti, tra i programmi dei centri di ricerca e di specializzazione, per iniziare almeno a muoversi nella direzione di una nuova protezione civile “integrata”, costruita mettendo insieme conoscenze scientifiche e saperi umanistici, politologici, sociologici, psicologici ed economici, per integrare le diagnosi effettuate sui dati rilevati dentro percorsi di conoscenza che vadano oltre la semplice individuazione tecnica delle risposte da dare. 

Questo modello, per qualcuno un sogno, per altri un incubo, per tutti una frontiera verso l’Ovest del nostro futuro che si è esaurita per sempre, frena e rende impossibile anche l’unica cosa sensata da pensare, progettare e realizzare: un percorso che accompagni nel tempo la riconciliazione tra uomo e territorio, basato sulla rinuncia all’ebbrezza della libertà senza freni per ricongiungere soluzioni di vita e riduzione dei rischi un passo alla volta, metro di terra dopo metro di terra.

 

La storia della nostra protezione civile ci dimostra che occorre un livello di chiarezza più esplicita nel disegnare percorsi e tempi delle decisioni, un disegno chiaro e univoco di distribuzione delle competenze e delle responsabilità, una capacità effettiva di intervento sostenuta da risorse finanziarie e umane proporzionate.

 

Fare protezione civile oggi è diventato veramente difficile, impossibile mi azzardo a dire, se consideriamo un diritto acquisito il federalismo delle risorse e delle opportunità di visibilità e lo statalismo delle cose andate storte, dei costi insostenibili, delle risposte pretese dai cittadini e non date a livello locale. 


Franco Gabrielli

 L'intervento integrale del Capo Dipartimento Protezione Civile Franco Gabrielli - pdf

 


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