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Pisa, 6 aprile 2011. Come viene gestito un campo di accoglienza? Quali caratteristiche devono avere i siti? In che modo vengono impegnati i volontari? E qual è stato il percorso che hanno fatto i migranti per arrivare dove sono ora? Che mestiere fanno? Cosa pensano dell’Italia?
Sandro Moni (Responsabile Regionale Anpas Toscana Protezione Civile e Coordinamento Operativo Regionale Volontariato) racconta e spiega l’esperienza dei campi di accoglienza. Saba, migrante, tunisino, racconta il suo viaggio e il suo arrivo a San Rossore (Pisa).
Ci stanno.
Spesso vengono accostati all’acqua: si parla di piscine, di tsunami umani. Sarà perché vengono dal mare. Sarà perché, come l’acqua, passano dove le porte sono chiuse. In ogni caso: vengono assimilati a qualcosa di liquido, ma ci stanno.
Sono arrivati al campo da poche ore e si dice che alcuni andranno via non appena gli prenderanno le impronte. A fare da mediatore culturale c’è la farmacista di San Rossore che, in arabo e con il velo sulla testa, ha spiegato loro il luogo dove sono, le varie procedure e, per quanto ne sa anche lei, cosa ne sarà di loro nei prossimi giorni. I volontari avevano già predisposto tutto: dalla segreteria allo screening sanitario, fino alla stanza per la preghiera. Dormono nello stesso stabile con “gli ospiti”: «…basta chiudere la porta a chiave», dicono.
Ora loro stanno qui. Sanno che in Italia non c’è lavoro e sanno che per trovarlo dovranno andare in Olanda, in Belgio o in Inghilterra. Saba è uno di loro: è arrivato a Livorno la mattina del 6 aprile e ora è San Rossore (Pisa). È partito dalla Tunisia il 22 marzo. Ha fatto 20 ore di viaggio in mare, di notte. Poi è arrivato a Lampedusa. Poi è stato due giorni a Civitavecchia. E ora sta qui. In una mano ha il cellulare e, come i suoi compagni, telefona in continuazione. Quando non telefona, usa il cellulare per ascoltare la sua musica. Nell’altra mano ha il foglio che gli hanno dato i volontari che sono nella segreteria del campo. Quello è l’unico documento che hanno. E ancora non sanno niente del loro status: rifugiati? Immigrati? Clandestini?
Saba sta qui perché uno di quelli che ce l’hanno fatta. Sempre ad aprile di due anni fa, mentre tutta Italia guardava a L’Aquila, migliaia di persone partivano dalle coste africane e perdevano la vita: il 31 marzo si persero le tracce di 500 persone. Il 2 aprile ne morirono 300. E già allora si parlava di strage annunciata. Per evitare le continue tragedie in mare, il Segretario Generale del Consiglio d’Europa, Terry Davis, suggerì di «creare – nonostante la crisi economica in atto – opportunità di lavoro nei paesi di origine di questi emigranti». L’Italia siglò l’accordo con la Libia. In quei giorni Maroni dichiarò: «gli sbarchi termineranno il 15 maggio prossimo, quando entrerà in vigore l’accordo siglato dal governo italiano con quello libico sul pattugliamento congiunto delle coste». Oggi, dopo gli accordi e le rivoluzioni, le persone hanno ricominciato a solcare il mare e a perdere la vita. Altri riescono a finire il viaggio e arrivano. A volte per andare altrove, altre volte per stare qui.
Al termine dell’intervista, Saba non ha chiesto sigarette o qualunque altra cosa che ci si potrebbe aspettare: «Mi dici su quale canale di Facebook metti quest’intervista?», dice. «Perché così la mia famiglia, in Tunisia, mi vede e capisce che sto qui». Le persone esistono, le storie ci stanno e non sono liquide.
Altri articoli: Telesubalpina, 13 aprile 2011 – La linea d’ombra – Video