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Il racconto di Valentina Montanari, volontaria Anpas Lazio
28 maggio 2017 – Sono in aeroporto, in attesa del volo che mi riporterà a Roma dopo il primo Sam.I. Rescue camp. In un weekend lungo, dal giovedì alla domenica, con dieci squadre provenienti da sei diversi paesi europei si sono sfidate sulle pratiche di protezione civile e soccorso sanitario, mettendo in campo tutte le loro competenze per mostrare (e dimostrare) la loro abilità.
Indipendentemente dai singoli risultati ottenuti, credo che quello che mi abbia arricchito di più in questa occasione sia stata l’esperienza di trovarmi a confronto con approcci simili ma allo stesso tempo molto diversi nell’affrontare le diverse prove proposte alle squadre in gara.
Ogni team, infatti, doveva affrontare dieci diversi scenari dove non sapeva a cosa sarebbe andato incontro: si è dovuto cercare dispersi, immobilizzare arti, praticare manovre salvavita ed estricazioni. Il tutto in inglese.
Girando i vari scenari ho avuto modo di osservare molti team all’opera e ho visto come, ad esempio, nella maggior parte dei paesi europei ai soccorritori è permesso utilizzare farmaci come l’adrenalina, oppure che nell’equipaggio-tipo non sono ammessi medici o infermieri (che intervengono solo sulle auto mediche se chiamati), o ancora, manovre come la Rautec in alcune paesi non sono utilizzate o, se lo sono, solo dai vigili del fuoco…insomma un’infinità di piccole differenze che non modificano il risultato finale di un’azione di soccorso ma che credo ci mostrano come non esista un modo giusto o sbagliato di fare le cose, tutto dipende dal contesto in cui ci troviamo.
Un aspetto però era comune a tutti i team presenti: l’affiatamento tra i vari componenti. Le squadre che hanno raggiunto i punteggi più alti infatti erano quelle in cui quasi non era necessario parlare perché ognuno sembrava già sapere quale fosse il suo compito e come agire al meglio per aiutare e supportare i propri colleghi. Parlando con loro, infatti, ho avuto una ulteriore conferma di quanto la formazione sia fondamentale.
Un’ultima cosa, che mi ha resa particolarmente orgogliosa delle nostre squadre della Valle D’Aosta e della Puglia, è che nonostante siano due regioni così distanti, con situazioni quotidiane ed esigenze spesso differenti, quando ci si confrontava su come agire sembrava di sentir parlare una sola persona: i ragionamenti, le azioni compiute, i movimenti erano perfettamente coordinati e sincronizzati.
Credo che solo grazie al confronto che si trova in esperienze internazionali come questa si possano scoprire nuovi aspetti del soccorso e trovare valore in ciò che siamo e che sappiamo fare. Solo qui possiamo toccare con mano il fatto che, a prescindere dalla lingua che parliamo e le specifiche competenze, condividere gli stessi valori ci rende tutti uguali.