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L’isola che non c’èOggi è lunedi. Rientro in ufficio. Nella borsa porto con me alcuni disegni: voglio scannerizzarli. Sento il bisogno di custodirli. Come se quei colori, quelle figure e quelle scritte sui fogli A4 siano un pezzo di vita nel campo, che ho portato via con me. Mi sono accorta che nella borsa mi si sono stropicciati un po’: ho un momento di panico, come se rovinandosi i disegni, avrei perso qualcosa di tangibile di cui ora ho bisogno, per ricordarmi che è successo davvero. Ho passato una settimana all’isola che non c’è: i miei bimbi sperduti hanno gli occhi a mandorla ma si chiamano come una mia zia fiorentina DOC Hanno la carnagione scura e i capelli crespi, ma parlano emiliano anche fra sorelle, anche se sono indiane. La ludoteca del campo Costa è oltre i bagni. I bagni sono in fondo al campo, dal lato opposto della carraia (l’ingresso del campo) e quasi nessuno, fra volontari e popolazione, va oltre i bagni, dove si concentrano molte delle attività primarie di questo villaggio: lavare i vestiti in continuazione, lavarsi per andare a lavoro la mattina presto, lavarsi di dosso verso sera il sudore di una giornata caldissima. La ludoteca è anche oltre i magazzini, il polmone del campo. Questi corrono lungo tutto il perimetro destro: lenzuola, detersivi, dentifricio, carta igienica, guanti, amuchina, secchi e scope. Tutto ciò che ogni tre minuti qualche abitante del villaggio và a chiedere a Thomas, magazziniere “uno e trino” di questa settimana (ogni giorno ha cercato invano l’elettricista e l’idraulico: se c’era il magazziniere, mancavano sempre gli altri due, e così via), si trova qui: nei container-magazzini. Oltre i bagni, oltre i magazzini, c’è l’isola che non c’è e i suoi bimbi sperduti. La ludoteca è un’isola perché non ci finisci per caso perdendoti nel campo, fra le tende, ma devi volerci arrivare, devi volertici affacciare e curiosare, attraversare un piccolo mare. è l’isola che non c’è perché ci sono solo bambini, che ad uno ad uno fanno capolino la mattina verso le 10 e mezza e se ne vanno la sera alle 19, quando l’isola che non c’è di Mirandola, al contrario di quella di Peter Pan, chiude. Pare che Peter Pan, durante il viaggio verso l’isola che non c’è dimenticasse sempre i nomi dei bambini. Con Peter Pan ho una cosa in comune: all’inizio non ricordavo i nomi dei bimbi. A differenza di Peter Pan, io all’isola che non c’è non cercavo la mia ombra, ma volevo invece staccarmela di dosso. Ora, dopo una settimana, i nomi di tutti i bambini li so: non saprei ancora come scriverli, ma so urlarli al vento. Attraverso i nomi ho rotto qualche diffidenza: Francesco lo abbreviavo con Frà, ma poi ho sentito che suo fratello piccolo lo chiamava Checco e ho preso a chiamarlo così. Mi sembrava più familiare, sembrava più familiare anche a lui. Da Frà a Checco sono cambiate tante cose, nel giro di due giorni: a Checco ho affidato la pallina del biliardino, forse si è sentito una responsabilità che lo ha reso fiero di sè, ha smesso di essere geloso del fratellino più piccolo, e da quella faccia chiusa e arrabbiata, nei giorni seguenti, è spuntato un sorriso e occhi pieni di luce. Checco mi ha fatto un disegno, che non mi sarei aspettata da lui: perché lui vuole giocare a dodgeball e vincere a nascondino. Il disegno di Checco è ciò di cui sono più orgogliosa. Per Checco la notte del 20 maggio è stato “come essere in un film americano che vedi in televisione, correvo e saltavo gli scalini delle scale di casa, che però si rompevano dietro di me, uno dopo l’altro. E giù a tutta velocità”.
Per una settimana, al campo, ti sembra di essere il centro per tutti quei ragazzini, il centro per i loro sfoghi e arrabbiature, il centro se hanno fame e sete: “succo, succo” – mi dice Mariem a tutte le ore. Il centro se si lanciano a tuffo contro un albero per fare tana a nascondino e li devi portare al PMA in braccio, soffiandogli sulla sbucciatura della mani mentre vai e inventandoti un’improbabile braccio di ferro con l’altra mano, una sfida ogni volta che l’infermiere mette sulla ferita il disinfettante che brucia: 5 a 0 per Luca e neanche una lacrima. Il sassolino dentro la ferita non c’è, quindi possiamo tornare nella nostra isola, facendo vedere il cerotto a chiunque incontriamo sulla via che ci riporta a giocare. Sei il loro centro, o baricentro, che prova a rimettere delle regole in un contesto nel quale molti genitori sembrano essersi messi fra il pubblico, e l’arbitro della partita lo devi fare tu e gli altri volontari, anche se non ti spetterebbe, anche se invece di dare punizioni “niente piscina, niente biliardino”, vorresti parlarci uno ad uno, e fargli capire le regole, spiegargli. Osservandoli uno ad uno, negli occhi, nei sorrisi, vedi in ognuno di loro piccole fragilità che si portavano dietro da prima del terremoto. Non sai bene cosa. è come se il campo li abbia fatti anche un po’ “branco”, molti maschietti si sono tagliati i capelli uguali, con la cresta in mezzo alla testa. “Non sai quanto è cambiato Giovanni. A casa mi aiutava in tutto: a fare la lavatrice, a stendere i panni, ad apparecchiare”, mi dice sua madre. Giovanni, in un momento in cui del “branco” non ci vede nessuno, mi regala uno dei braccialetti che ha comprato al mare, nei due giorni di vacanza che ha fatto a ferragosto. Tempo una notte e mi si rompe. Il giorno dopo se ne accorge e mi chiede di chiudere gli occhi: li chiudo e ho di nuovo il mio braccialetto blu al polso.
Nell’isola che non c’è ogni giorno ci ho lasciato un pezzetto di voce, più di qualche goccia di sudore, un po’ di rassegnazione e un po’ di fantasia, qualche pennellata su un lenzuolo, qualche arrabbiatura. A snebbiare la mente ci sono i compagni di viaggio, che mentre io, in fondo, sto solo giocando con i bambini, loro lavano bagni, controllano pass, cucinano, apparecchiano, servono ai tavoli, fanno ordini, disfanno ordini, tirano su strutture antipioggia sotto il sole di metà agosto, mediano le liti fra gli abitanti di un villaggio, che comincia a stare stretto.
Con loro si scoprono parole mai sentite, nel siciliano della nonna di Giacoma, con una pronuncia che ricorda sonorità arabe. Si allevia lo stress della giornata con barzellette a raffica, si fanno playlist, si legge l’oroscopo. Si scopre cosa è un ragno, si passano ore in carraia tanto per chiacchierare, dove ci si ferma con un paio di mutande in mano prima di andare in doccia, solo per sapere oggi com’è andata. Si fa la notte al posto di chi a fine settimana non ce la fa più, si prestano pecore a chi non ne ha. Si fa un letto con tante gambe arancioni per dare cinque minuti di sollievo e riposo ad una di noi. Si prestano pantaloni arancioni e si riprendono tutti sporchi e sudati: “non fa niente, li porto via così”. Si mettono cerotti ai piedi che si sono rotti, si regalano maglie, si fa la frittata apposta per noi. Si porta il caffè, si spinge insieme il carrello della spazzatura, si ascolta chi ancora oggi si commuove, chi ne ha vissute mille più di noi e chi ha appena cominciato a viverne ma ha una freschezza che mette energia solo a starci vicino. Al campo Costa non ci sono scalini e non c’è cemento. Cammini in infradito e non hai troppa paura di farti male.
Annalisa Bergantini, Anpas
“I poteri hanno visto nelle isole dei luoghi di reclusione, hanno piantato prigioni su ogni scoglio: il mare nostro brulica di sbarre. Gli uccelli invece vedono nell’isola un punto di appoggio, dove fermare e riposare il volo, prima di proseguire oltre. Tra l’immagine di un’isola come recinto chiuso, quella dei poteri, e l’immagine degli uccelli, di un’isola come spalla su cui poggiare il volo, hanno ragione gli uccelli. […] Da qualunque distanza, arriveremo. A milioni di passi. Noi siamo i piedi, e vi reggiamo il peso. Spaliamo neve, pettiniamo prati, battiamo tappeti, raccogliamo il pomodoro e l’insulto. Noi siamo i piedi e conosciamo il suolo passo a passo. Noi siamo il rosso e il nero della terra, un oltremare di sandali sfondati, il polline e la polvere nel vento di stasera.” – Erri De Luca –
Quattro miliardi di uomini su questa terra,
da Grande Numero di Wislawa Szymborska
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