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Luca Jahier: “Il Terzo Settore ancora non è ancora sufficientemente proiettato nella dimensione europea”
Il Presidente III Gruppo CESE Comitato economico e sociale europeo descrive il Volontariato Italiano visto da Bruxelles
Luca Jahier, Presidente del Consiglio nazionale ACLI e Responsabile delle relazioni internazionali, presiede dall’ottobre del 2008 il terzo gruppo che abbraccia anche gli interessi del mondo del Volontariato e del Terzo Settore. Parteciperà al convegno “Dall’Unità Nazionale all’Europa dei Popoli”, in programma a Genova, sabato 15 ottobre 2011.
Il CESE, e in particolare il gruppo da te presieduto, costituisce un osservatorio interessante sulla società civile organizzata e l’impegno civico nei diversi paesi dell’Unione Europea. In cosa ti sembra che si distingua il Volontariato italiano?
Il volontariato italiano vanta una lunga e gloriosa storia, che trova riscontro nella molteplicità dei campi di azione, nella sua capacità di forte radicamento nella pluralità delle diverse comunità locali e territoriali, nella passione generativa che consente tuttora la nascita di nuove iniziative e di nuovi soggetti e di una consistenza numerica del tutto ragguardevole. Si tratta di tratti distintivi che sono presente anche in altri paesi, ma che certamente sono caratterizzanti il volontariato italiano. In rapporto a ciò che si sviluppa in altri paesi vi è però una distinzione che talora suscita anche un certo dibattito in Italia e cioè il concepirsi, spesso, come una componente molto specifica e distinta rispetto alle altre parti del terzo settore italiano. Questo non è così vero in molti altri paesi europei, nei quali sia movimenti civici, che l’impegno nel settore dello sport o più in generale nella dimensione dell’impegno associativo in genere vengono ricompresi nel quadro dell’azione volontaria, sia in termini di prassi che in termini di concezione e di rappresentanza. Questa diversità di definire i “confini” dell’azione volontaria è certo uno degli elementi che hanno reso sinora difficile trovare criteri univoci di misurazione dell’attività volontaria in tutti i paesi europei e che rimane tuttora un nodo dialettico nella situazione italiana, ma che mi auguro possa trovare delle sintesi importanti.
L’associazionismo italiano è “sbarcato” in Europa? Come valuti l’impegno del Terzo Settore italiano in ambito comunitario?
La storia e la presenza delle varie componenti del terzo settore italiano in Europa non è certo questione di sbarco recente. Come ho descritto nel capitolo dedicato a questo aspetto del Libro Bianco sul Terzo settore, curato dall’Agenzia per il terzo settore e recentemente pubblicato per i tipi de Il Mulino, si tratta di una presenza quanto mai articolata, sia per quanto concerne l’eterogeneità dei soggetti , sia per quanto riguarda l’evoluzione temporale delle presenze e della capacità di essere parte attiva del processo europeo. Vi sono presenze più antiche, anche capaci di una buona presa nello spazio pubblico comunitario, come le organizzazioni ambientali o quelle dei consumatori, ma che sinora sono riuscite poco a svolgere il proprio ruolo di ponte verso la società italiana. Vi sono settori invece che da alcuni anni vedono una chiara parabola discendente del proprio peso e rilevanza in questo spazio pubblico (associazionismo e ONG di sviluppo). Ve ne sono altri infine che hanno invece vissuto una importante e consistente accelerazione delle presenze, del ruolo e della capacità di implicazione delle rispettive basi organizzative, quali per esempio il movimento cooperativo e il volontariato, almeno nella sua componente dei Centri di servizio. Io credo che complessivamente il terzo settore italiano non sia sufficientemente collegato e proiettato nella dimensione europea, talora sia stato legato a progetti e finanziamenti specifici, con più difficoltà di farsi parte di strategie complessive e di lungo periodo. Il quadro necessita di adeguati investimenti in risorse umane e in strategia, perché in Europa c’è bisogno della creatività e della passione civica italiana e anche la crescita del terzo settore nostrano abbisogna di una proiezione strategica e progettuale più europea. La logica di interconnessione del ruolo dei governi e dei responsabili economici messa in chiara luce dalla tremenda crisi economica che stiamo vivendo, è tanto più vera anche per le nostre società civili organizzate, i cui corpi nazionali sono spesso molto “sconnessi” tra loro nella dimensione europea e dunque troppo deboli per giocare il ruolo cui sono chiamati per costruire una nuova stagione di progresso sociale, che dobbiamo svolgere anche sul livello continentale, se vogliamo trovare risposte sostenibili e inclusive a questa crisi.
Alcuni funzionari della Pubblica Amministrazione italiana stanno interpretando in modo restrittivo la normativa europea, contestando l’affidamento di servizi in ambito sanitario con convenzioni alle organizzazioni di Volontariato.
Ritieni che ci siano state delle difficoltà anche negli altri Paesi della Comunità Europea nel rapporto tra Pubbliche Amministrazioni e società civile? Quali iniziative possono essere intraprese a livello europeo?
Come è noto, negli ultimi anni, il dibattito intorno ai servizi di interesse generale e ai servizi sociali di interesse generale è stato quantomai vivace in tutta Europa. Ricordiamo anche solo quanto successe ai tempi della famosa Direttiva Bolkestein e dell’impatto che essa ebbe nel quadro del referendum francese che bocciò il Trattato costituzionale nel maggio 2005. Così è stato anche per alcuni ricorsi presentati alla Corte di giustizia europea, con riferimento a casi specifici di aiuti di stato in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia e la Germania, anche solo con riferimento a specifici servizi socio-assistenziali. Il Trattato di Lisbona entrato in vigore a fine 2009, a mio parere, chiarisce molto bene la situazione e offre anche un quadro prospettico di grande interesse. Il combinato in particolare degli art 14 (clausola generale per i servizi di interesse economico generale), 107 (concernente gli aiuti di Stato) e del protocollo n 26 sui servizi di interesse generale, fissa in modo chiaro alcuni principi inderogabili: il ruolo fondamentale e l’ampia capacità discrezionale degli enti nazionali, regionali e locali nel fornire, commissionare e organizzare tali servizi; la diversità di tali servizi e delle differenti situazioni territoriali; la necessità di garantire un alto livello di qualità, sicurezze e accessibilità economica per tutti. Se tutto questo si incrocia poi con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e con la clausola sociale orizzontale inclusa nel Trattato, non vi sono certo ragioni per supportare interpretazioni restrittive, quanto piuttosto un grande lavoro da fare per ampliare ed aumentare la qualità e l’efficacia di tali servizi, affinché essi possano rispondere al loro obiettivo primo, che è quello di garantire i diritti fondamentali per tutti i cittadini.
NOTA – Il CESE è un organo consultivo dell’Unione europea. Istituito nel 1957, esso fornisce consulenza a Commissione, Consiglio e Parlamento europeo attraverso l’elaborazione di pareri sulle proposte di leggi europee e la proposta di temi e problematiche sui quali ritengono necessario un intervento legislativo. Uno dei compiti principali del CESE è fungere da ponte tra le Istituzioni dell’UE e la cosiddetta “società civile organizzata” stabilendo un dialogo strutturato tra le associazioni che operano negli Stati membri dell’UE e in altri paesi del mondo.